Storia archivistica: In Italia il primo tentativo di disciplinare le organizzazioni di beneficenza trovò parziale attuazione nella legge 753 del 3 agosto 1862, la cosiddetta “legge Rattazzi”, promulgata da Vittorio Emanuele II e seguita dal regolamento attuativo del 27 novembre di quello stesso anno. La legge Rattazzi, dopo aver definito (l’articolo primo della legge definiva le opere pie enti morali che avevano, quale fine principale, quello di “soccorrere le classi meno agiate, (...) di prestare loro assistenza, educarle, istruirle ed avviarle a qualche professione”) e descritto le caratteristiche delle opere pie, affrontava questioni complesse quali gestione, regime economico, contabilità e composizione degli organi amministrativi degli enti e introduceva per la prima volta l’idea di un controllo governativo sul loro funzionamento. Nonostante i buoni propositi la legge non riuscì però a produrre sostanziali riforme e le opere pie, per quanto adesso obbligate a compilare e rendere pubblici statuti, bilanci e inventari patrimoniali, continuarono ad avere piena libertà di azione e amministrazione. Principale innovazione fu forse proprio quella di aver istituito, presso ogni comune del regno, una Congregazione di carità con il compito di amministrare i beni donati da cittadini benestanti, gestire direttamente le opere pie prive di amministratori e supervisionare la gestione di tutte le altre. Con la successiva legge 6972 del 17 luglio 1890, la cosiddetta “legge Crispi”, emanata da Umberto I, si arrivò di fatto alla nazionalizzazione della beneficenza. La legge trasformò infatti le opere pie in Istituzioni pubbliche di beneficenza (Ipb) e ne affidò la vigilanza ai sottoprefetti e alle Giunte provinciali amministrative, mentre al ministro dell’Interno spettò l’alta sorveglianza sulla pubblica beneficenza. L’elezione dei consigli d’amministrazione venne demandata alla Giunta comunale e al prefetto venne affidata l’estinzione delle opere pie a carattere effimero, nonché la loro fusione in consorzi. Il carattere laico degli istituti era disciplinato dall’articolo 78 in cui si affermava che essi dovevano esercitare la beneficenza verso tutti coloro che ne avessero diritto “senza distinzione di culto religioso o di opinione pubblica”. Vennero inoltre definite in maniera più organica le finalità e l'organizzazione delle Congregazioni di carità, nelle quali dovevano essere concentrate tutte le istituzioni e i fondi elemosinieri, le istituzioni pubbliche di assistenza che avessero una rendita inferiore a 5.000 lire annue e che fossero prive di propri organi amministrativi, nonché quelle esistenti nei comuni con meno di 10.000 abitanti. Secondo quanto disposto dalla legge, le Congregazioni dovevano essere amministrate da un comitato, eletto dal consiglio comunale e composto da un presidente e da un numero variabile di membri, mentre la funzione di tesoriere era affidata all'esattore comunale. Con il successivo regolamento applicativo, emanato il 5 febbraio 1891, si stabilì che ogni congregazione doveva disporre di un proprio archivio in cui conservare gli atti generali, il registro di protocollo della corrispondenza con relativa rubrica, il registro cronologico delle deliberazioni, i bilanci preventivi e i conti consuntivi. Gli inventari dei beni mobili e immobili e dei titoli di rendita dovevano invece essere conservati separatamente. Tuttavia la legge Crispi lasciò irrisolti numerosi problemi, tra cui il mancato coordinamento dell’assistenza e della beneficenza nelle sue varie forme e l’inefficienza dell’apparato pubblico, che anzi subì ulteriori appesantimenti burocratici. A integrazione e revisione della legge Crispi, il 18 luglio 1904 venne emanata la cosiddetta “legge Giolitti”, che istituì le commissioni provinciali di assistenza e beneficenza e, a livello centrale, un Consiglio superiore presso il Ministero dell’Interno. I nuovi organismi ebbero il difficile ruolo di coordinare l’azione dei diversi istituti di beneficenza in un periodo storico segnato da tensioni sociali e politiche, rafforzando ulteriormente il ruolo dello Stato nella gestione dell’assistenza, vista adesso come un diritto inalienabile dell’individuo. La legge tuttavia si scontrò con la scarsità di risorse messe in campo, problema che, durante gli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale, divenne una drammatica emergenza che portò molti enti al tracollo finanziario. L’ascesa del fascismo comportò una nuova trasformazione degli enti assistenziali. Con regio decreto 2841 del 30 dicembre 1923 la legge Giolitti venne abrogata, poiché in contrasto con la politica accentratrice promossa dal regime, e al suo posto ripristinate molte delle precedenti disposizioni in materia. Le Istituzioni pubbliche di beneficenza mutarono denominazione in Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab) e molti dei vecchi amministratori, perlopiù appartenenti al mondo cattolico e socialista, vennero sostituiti da persone fedeli al regime. Nel dicembre 1925 venne istituito uno degli enti assistenziali che maggiormente rispecchiava la politica sociale fascista, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (OMNI), nata al fine di coordinare a livello centrale tutte le iniziative intraprese localmente a favore dell’infanzia e orientato principalmente a sostenere la politica demografica. L’ente resterà attivo anche dopo la caduta del fascismo e verrà soppresso soltanto nel dicembre 1975. Con la legge 847 del 3 giugno 1937 le Congregazioni di Carità vennero soppresse e sostituite da nuovi istituti, gli Enti comunali di assistenza (ECA), presenti in ogni comune allo scopo di operare a favore degli individui e delle famiglie che si trovassero in condizioni di particolare necessità. Le ECA subentrarono inoltre nel patrimonio, nelle attività e nell'amministrazione di tutte le istituzioni pubbliche presenti nel comune che fossero finalizzate a prestare assistenza “immediata e temporanea” quali piccoli sussidi, razioni di vitto e ricoveri notturni. Se in precedenza tali istituzioni, pur sotto il controllo delle Congregazioni di carità, avevano mantenuto la propria personalità giuridica e i propri patrimoni, secondo la nuova normativa esse dovevano adesso fondersi nell'ECA, che avrebbe pertanto provveduto al raggiungimento dei propri fini istituzionali sia con le rendite proprie sia con quelle delle istituzioni ricadenti sotto la sua amministrazione. Il bilancio dell’ECA poteva inoltre essere integrato attraverso fondi stanziati dallo Stato, elargizioni di privati e di enti e gettiti provenienti da addizionali sopra tributi erariali e locali. L'amministrazione di ciascun Ente venne affidata ad un organo collegiale, detto Comitato, presieduto dal podestà. Con disegno di legge 173 del 22 marzo 1945 venne affidata a nuovi organismi, i Comitati provinciali di assistenza e beneficenza, la vigilanza sull’operato delle ECA. Con la nascita della Repubblica, l’articolo 38 della Costituzione ribadì il diritto di ogni cittadino a ricevere assistenza sociale “attraverso organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Sebbene la stessa Costituzione affidasse alle Regioni il potere di legiferare in materia di “beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera; istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica”, tali indicazioni rimasero inattuate fino al 1972 (il DPR 9 del 15 gennaio 1972 sancì il trasferimento alle Regioni di tutte le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di beneficenza pubblica e attribuì al Coreco l’esercizio di controllo), soprattutto per motivi economici e organizzativi. Nel 1970 a seguito di un censimento promosso dal Ministero dell’Interno, vennero individuate 9.000 IPAB, 12.819 in meno rispetto al precedente censimento, svolto tra il 1880 ed il 1888. Con il DPR 616 del 24 luglio 1977, vennero trasferite ai comuni, singoli o associati, le attribuzioni degli enti comunali di assistenza, nonché i rapporti patrimoniali ed il personale. Vennero inoltre distinte le prestazioni previdenziali da quelle assistenziali, a loro volta suddivise tra assistenza sanitaria e assistenza sociale: le prime rimasero di competenza statale, le seconde passarono agli enti locali. Vennero invece escluse dal trasferimento tutte quelle Ipab che svolgevano “in modo precipuo attività inerenti la sfera educativo-religiosa”. A seguito delle sentenze della Corte costituzionale 173 del 1981 e 396 del 1988 vennero annullate le disposizioni che prevedevano il trasferimento ai Comuni delle Ipab “infraregionali”, che tornarono di fatto nella situazione giuridica preesistente riappropriandosi dei propri patrimoni. In anni più recenti, la legge quadro 328 dell’8 novembre 2000 ha ridefinito il profilo delle politiche sociali apportando tutta una serie di elementi di novità nell’ottica di un maggiore coordinamento e di una migliore integrazione dei servizi. Essa ha innanzitutto segnato il passaggio da una concezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, ad una di prevenzione e protezione sociale attiva.