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Prefettura della Montagna di Norcia, Norcia (Perugia), 1569 - 1817

  • Ente
  • Estremi cronologici: 1569 - 1817
  • Intestazioni:
    Prefettura della Montagna di Norcia, Norcia (Perugia), 1569 - 1817
  • Altre denominazioni: Prefettura della Montagna di Norcia
  • Il 27 gennaio 1569 giunge a Norcia Giovan Francesco Rutiloni di Tolentino in qualità di luogotenente del fratello Sebastiano, di cui reca il breve di nomina a prefetto di Norcia e della Montagna. La Terra di Norcia, che occupa una posizione centrale geograficamente e politicamente in un territorio quale quello della Montagna a cavallo tra Umbria e Marca Ascolana e che presenta notevoli specificità storico-sociali rispetto all'una e all'altra provincia, ha vissuto un lungo periodo di tramonto del regime comunale protrattosi anche oltre la sottomissione di Perugia ad opera di Paolo III. Con l'erezione della "Prefettura della Montagna" si raggiunge per tale territorio un assetto definitivo, risultato di un iter segnato da alcune tappe fondamentali: invio frequente di commissari nei primi decenni del '500, sostituzione, nel 1545, del podestà con un governatore emanazione del legato di Perugia; intervento del pontefice che, sempre più spesso, nomina direttamente il governatore; distacco della Montagna dalla Provincia dell'Umbria.
    Ci si può allora legittimamente chiedere perché Pio V abbia voluto suggellare il definitivo inquadramento della Montagna nel nuovo assetto provinciale con l'introduzione del titolo di Prefettura, quando le attribuzioni del Prefetto sono per molti versi assimilabili a quelle del governatore, di più affermata tradizione: in realtà non infrequente è l'uso del titolo di prefetto nell'età di mezzo, per designare un governatore nominato dal sovrano, con competenze militari e civili su città o territori. Se però si prescinde da un ambito strettamente romano, del tutto inusitato risulta tale titolo nell'amministrazione dello Stato ecclesiastico e in particolare nella ricostituenda struttura periferica. Benché la condizione di Norcia e della sua Montagna sia infatti assimilabile nella sostanza a quella di altre terre recuperate alla Chiesa, per quanto ci è dato sapere, il titolo di "Prefettura" costituisce un "unicum" nella suddetta amministrazione provinciale.
    Perché, dunque - torniamo a chiederci - questa volontà di Pio V di sottolineare più la diversità che l'omogeneità? Lo storico nursino Fortunato Ciucci, che scrive intorno al 1650, sembrerebbe adombrare, inserendo nella descrizione della Prefettura della Montagna un'ampia parentesi storica altrimenti ingiustificata, una derivazione del titolo dalla volontà pontificia di richiamare in luce un'istituzione di epoca classica, la prefettura appunto, che ricordasse il lustro proveniente a Norcia dalla soggezione a Roma. Ricorda infatti il Ciucci, citando il "De antiquo iure Civium" di Carlo Sigonio, come il pretore di Roma inviasse prefetti a Norcia e come, conclusa la pace tra Sabini e Romani, la Sabina venisse divisa in quattro prefetture, la prima delle quali era quella di Norcia. L'ipotesi è suggestiva e intonata al clima umanistico di riscoperta della classicità, per la verità largamente appannato in questi anni dalle istanze controriformistiche, ma ancora ben attestato nel più ritardatario ambiente culturale nursino: tale ipotesi filologica è infatti plausibile solo laddove si postuli un intervento in fase propositiva della cerchia di nursini dottori "in utroque" gravitanti intorno a Roma, come il letterato Girolamo Catena, segretario della Consulta e intimo di Papa Ghislieri e Candido Zitelli, commissario generale dei banditi per tutto il territorio dello Stato della Chiesa a partire dal 1567.
    Per un'altra strada si può invece pensare che Pio V sia stato indotto a coniare un titolo speciale per il territorio montano da una effettiva peculiarità della situazione nursina. E' prassi comune, nel momento delle grandi recupere, la sottrazione di territori alle legazioni, con erezione di molte città a capitali dei loro contadi, ed è stata rilevata da molti storici la tendenza alla parcellizzazione territoriale nella dinamica contrattuale potere centrale - patriziati cittadini; in questo senso la situazione della Montagna nursina è perfettamente omogenea con quella di altri territori. Pio V riconosce l'omogeneità culturale e territoriale della Montagna e la sua specificità nei confronti della provincia dell'Umbria. Comprende altresì l'importanza del coordinamento e dell'unità giurisdizionale di questa zona di confine, per di più morfologicamente disagiata e quindi difficilmente controllabile, più di ogni altra esposta al proliferare del banditismo; all'interno di questo territorio non esiste però una città che con la sua giurisdizione "in spiritualibus" suggerisca una sua erezione a capitale anche "in temporalibus", bensì il centro egemone è una semplice terra. Si può allora concludere che la coniazione del titolo di "Prefettura" stia a sottolineare la peculiarità di una terra eretta a capitale di una regione autonoma e che l'istituzione stessa rappresenti una provincia di rango inferiore.
    La iniziale consistenza territoriale della Prefettura, insieme ad altre importanti notizie, ci viene fornita dal breve d'istituzione di Pio V: sono dunque sottoposte alla giurisdizione del prefetto la terra di Norcia, ove questi risiede abitualmente nel palazzo della Castellina, le terre di Cascia, Visso, Cerreto e Monteleone, e loro rocche, castelli, luoghi, contadi e distretti, che restano così divise dalla Provincia dell'Umbria e del tutto sottratte dalla soggezione al governatore di Perugia; non lascia spazio a dubbi in proposito il testo del breve: "[....] a iurisditione et superioritate moderni, et pro tempore existentis Gubernatoris Civitatis Perusiae, et Provinciae Umbriae nostrae tenore praesentium segregantes, separantes penitus et eximentes [....]". Il provvedimento rientra d'altronde nell'indirizzo comune della politica pontificia di sostituire all'opera dei legati e governatori provinciali una presenza più intensa e capillare sul territorio, tramite l'uso generalizzato del governo di breve, esteso in questo periodo a tutte le città e a molte terre. L'efficacia dell'azione dei governatori e la loro stretta dipendenza da Roma, cui essi sottopongono direttamente i giudicati, consuetudine questa che sarà sancita ufficialmente da Sisto V con la creazione della Sacra Consulta, determina infatti una perdita di funzione dei capi delle province, le cui attribuzioni diverranno man mano più limitate.
    A reggere la Prefettura viene chiamato primo un dottore "in utroque iure" esperto nell'amministrazione della cosa pubblica e nominato direttamente dal Pontefice, ma a dimostrazione dell'importanza che almeno nel primo periodo la carica ebbe, si riscontra già dal 1583 per la Montagna lo status di governo prelatizio al pari delle maggiori città dello Stato della Chiesa.
    Le attribuzioni del prefetto riguardano perlopiù la sfera giurisdizionale: ha infatti giurisdizione in primo grado sulle cause tanto civili che penali, e nell'amministrazione della giustizia civile agisce cumulativamente col capitano delle appellazioni, potendo i cittadini ricorrere all'uno o all'altro indifferentemente. La permanenza di questa diarchia è un relitto del privilegio concesso "ab antiquo" alla comunità nursina di amministrare la giustizia di primo grado in loco, diritto cui Norcia fu sempre strenuamente attaccata in occasione dei reiterati tentativi del potere centrale di riassorbire la carica, ormai sicuramente anacronistica, se non inutile. E' comunque prassi comune in questi anni la conservazione delle magistrature locali, cui si lascia la giurisdizione sulle cause civili, sia perché perlopiù prive di contenuti politici, al contrario di quelle penali, sia perché i magistrati locali conoscono più profondamente gli statuti e le consuetudini locali; questi assolvono quindi in un primo momento un utile compito, e l'erosione dei loro poteri verrà effettuata gradualmente nel lungo periodo.
    Al di là dei conflitti di competenza tra centro e periferia su questioni che in realtà si è visto essere di relativa importanza, la giurisdizione sulle cause penali è ormai anche a Norcia saldamente nelle mani del prefetto e quindi del potere centrale. Nelle cause di maggiore importanza, quelle cioè eccedenti la pena di cinque anni di triremi, il prefetto, come in generale tutti i governatori, deve informare del reato la Sacra Consulta ricevendone indicazioni vincolanti sulla sentenza. Tra le prerogative del prefetto è la concessione dell'appalto della cancelleria generale e segreteria della Prefettura, di grande valore venale, mentre la cancelleria particolare della terra di Norcia esula dalle sue competenze. Quella civile è della comunità nursina, che la dà gratis, essendo poco remunerativa, ai notai della terra e del contado, estratti a sorte di volta in volta ed obbligati a ricoprire l'ufficio per statuto.
    Lo stipendio del prefetto ammonta, nel 1587, a trentatré scudi il mese, mentre altri trentatré sono destinati al mantenimento di un bargello con dieci birri e un cavallo. Come è prassi corrente dell'epoca, è invece espressamente vietato accettare altre remunerazioni, tranne doni in natura consumabili in tre giorni.
    Non si deve però pensare che i poteri del prefetto si limitino alla mera amministrazione della giustizia; a conferma basterebbero le stesse parole del breve, che gli attribuiscono chiaramente il governo del territorio, specificando la concessione di tutte le attribuzioni avute nel passato da governatori, commissari e rettori. Si evince poi dalle riformanze comunali che il prefetto è ammesso alle riunioni del consiglio, e in effetti vi partecipa personalmente o comunque vi si fa rappresentare dal suo luogotenente o da auditori appositamente deputati.
    In tali consigli egli non ha certo parte passiva, ma anzi interviene spesso nell'approvazione dei decreti col peso della propria autorità, svolgendo un ruolo di controllo e supervisione soprattutto nelle questioni concernenti la vita economica. Troviamo così nelle riformanze, al 23 maggio 1569, il sigillo e la firma del Rutiloni a conferma del decreto di concessione una tantum di un posto entro le mura per la vendita delle carni di seconda scelta: "Approbamus, confirmamus et validamus suprascriptum decretum tamquam iustum, et rationabile, et illud executioni demandari iubemus in omnibus, et per omnia pro ut cantat, quibuscumque in contrarium non obstantibus, interponentibus in praemissis nostram authoritatem.....ita est, Sebastianus praefectus".
    Si ritrova un'approvazione dello stesso tenore ancora al 16 settembre dello stesso anno apposta ad una serie di capitoli riguardanti l'approvvigionamento del grano, l'ultimo dei quali è poi illuminante per la comprensione della gerarchia creatasi tra decreti del prefetto e del magistrato comunale; recita infatti il suddetto capitolo:"per cagione delli soprascripti ordini per nesun modo se intenda de pregiudicare alli banni ordini et decreti di Monsignor Illustrissimo prefetto fatti et da farsi quali sempre se intendano essere in viridi observantia secondo harbitrio et volunta de S.S.Ill."
    Altre volte è il sopravvivere di dissensi nel consiglio a determinare la paralisi legislativa dello stesso e a consigliare quindi il ricorso all'arbitrio del prefetto, che emette allora decreti in prima persona quale esperto super partes e rappresentante dell'autorità superiore.
    Il quadro tracciato mostra da sé i progressi fatti in pochi anni dall'autorità pontificia anche a Norcia, ma la vastità dei poteri riconosciuti al prefetto non deve far dimenticare la sua essenza pattizia, frutto di una complessa mediazione tra privilegi acquisiti e moderne istanze centralistiche. E' questa la chiave di lettura per comprendere i reiterati ricorsi ai superiori in occasione di sconfinamenti del prefetto in ambiti ancora ritenuti di esclusiva competenza del magistrato comunale o quando vengano formalmente intaccati il prestigio e l'onore della Comunità.
    Si è già detto, a tal proposito, dell'ostinazione dimostrata dai nursini nel pretendere il riconoscimento del diritto di nomina del capitano; un altro episodio illuminante, è una lunga e spinosa questione sorta all'indomani dell'istituzione della prefettura tra il magistrato cittadino e il prefetto intorno ai diritti di precedenza, protrattasi tra ricatti reciproci e ricorsi ai superiori.
    Un ultimo cenno va fatto sull'uso del sindacato del prefetto. E' prassi corrente nell'amministrazione pubblica che il magistrato, alla fine del suo mandato, si sottoponga a sindacato rendendo conto del proprio operato, e solo dopo l'esito positivo di tale esame si proceda al pagamento del salario, che funge dunque da garanzia per la comunità. In epoca comunale sottostavano a sindacato il podestà e il capitano e l'esame della loro amministrazione era affidato a sindaci designati dal consiglio; nel caso del prefetto sussiste l'uso del sindacato, ma la nomina dei sindacatori è ora appannaggio del potere centrale, trovandosi di ciò conferma nelle riformanze comunali, ove è trascritto il breve col quale Pio V designa a sindacatore del Rutiloni il suo successore nella carica Giovanbattista Baiardo.
    Al termine del mandato, superato con esito positivo il sindacato, il prefetto riceve quindi per intero lo stipendio suo e della sua famiglia dal tesoriere comunale, dietro quietanza, registrata con atto ufficiale dal notaio delle riformanze, in cui rinuncia a qualsiasi futura rivendicazione, dichiarandosi pienamente soddisfatto della sostanza e dei modi del pagamento.
    Chiarite funzioni e prerogative del Prefetto, resta da analizzare un altro fondamentale aspetto della magistratura, inerente la sua funzione di governo sovraterritoriale. L'attività della Prefettura della Montagna copre un arco di tempo di circa due secoli e mezzo, figurando nell'organizzazione provinciale pontificia (con due brevi interruzioni tra il 1572 e il 1583 e tra il 1799 e il 1802) dal 1569 al 1809. La sua parabola storica, dalla massima espansione territoriale ed importanza strategica al definitivo ridimensionamento e marginalizzazione, si esaurisce però in non più di tre decenni sul declinare del XVI secolo, cioè per il periodo che coincide con la fase più acuta della lotta al banditismo, condotta con diverso metodo ed intensità dai pontefici Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII.
    Il banditismo è un fenomeno per molti versi endemico dell'Italia centro meridionale; la storiografia ha studiato le sue cause sociali ed economiche, che derivano in definitiva dalla povertà e marginalità delle popolazioni rurali. C'è però un'origine prossima dell'acutizzarsi e riproporsi in forme più complesse del banditismo nei secoli XV e XVI: esso consiste nel largo impiego, da parte dell'autorità, del bando, pena derivata dal diritto germanico, tendente non tanto a ristabilire un principio di giustizia punendo il reo, quanto, più pragmaticamente, ad evitare che questi commetta altri delitti nel territorio di pertinenza del magistrato giudicante. I banditi poi, appartenenti perlopiù al mondo rurale, sono ritenuti dall'autorità criminali da perseguire, ma sono considerati spesso dai contadini come veri e propri eroi, protettori contro gli abusi dei potenti. Si crea quindi in generale tra fuorilegge e società rurale un legame difficile da recidere, alimentato com'è dal rifiuto di una legge estranea vista come persecutoria. Il timore di ritorsioni e in generale la paura collettiva tanto dei banditi quanto dei soldati conduce infatti quasi sempre ad ostacolare le operazioni di questi ultimi e a trattare invece con i banditi per evitare il saccheggio.
    Lo stato della Chiesa ha d'altronde in sé una intrinseca debolezza nel confrontarsi col problema banditismo, da ravvisare in primo luogo nell'esiguità dei territori soggetti ad una stessa giurisdizione, con la conseguente facilità di fuga delle bande fuori del raggio d'azione dei propri inseguitori; poi nella mancanza di un coordinamento nell'azione dei vari governi.
    Sarà di contro la disponibilità ad occuparsi della periferia la carta vincente di Roma contro il banditismo: la concessione di più ampi poteri di intervento ai rappresentanti locali dell'autorità, il maggiore coordinamento di questi attraverso un'opera di controllo da parte delle congregazioni, il superamento di conflitti di competenza in materia giudiziaria, sono altrettante tappe nel raggiungimento di una maggiore coesione statale contro la minaccia disgregatrice del banditismo.
    In questo disegno, sviluppatosi e definitosi nella seconda metà del '500, rientra a buon diritto l'istituzione della Prefettura della Montagna, le cui vicende permangono nel grande flusso della storia fintanto che il banditismo rimane un problema centrale. Non a caso le uniche tracce rinvenute nell'Archivio Segreto Vaticano di corrispondenza del centro con la Montagna ricoprono un periodo di tempo di cinquanta anni, dal 1582 al 1628.
    Ricostruendo per ordine le principali vicende della Prefettura nell'ultimo trentennio del '500, già alla sua prima istituzione, il 27 gennaio 1569, possiamo pensare che nelle intenzioni di Pio V vi fosse anche quella di costituire un forte governo unitario in una zona che si prestava in modo speciale al proliferare delle bande armate. Ben chiara doveva essere infatti al Ghislieri la condizione della Montagna, per essere il cardinal nepote il protettore della comunità: un territorio innanzitutto montuoso e in parte boschivo e selvaggio, adatto quindi al rifugio delle bande, vicino poi ai confini del Regno, che hanno offerto sempre facile ricetto ai malviventi; una terra straordinariamente sediziosa e attaccata alle libertà comunali, dove il fuoruscitismo politico ha raggiunto notevoli proporzioni e le animosità tra famiglie e comunità non sono ancora spente; una condizione di rifeudalizzazione determinata dal rifugio dei capitali provenienti da Roma, con conseguenti forti sperequazioni economiche accentuate dalle ricorrenti carestie.
    La funzione della nuova istituzione come deterrente al banditismo è d'altronde adombrata nel testo del breve di istituzione, sia ove si enunciano le motivazioni della nomina di un solo uomo al governo della Montagna, dichiarandosi di voler governare in pace questi luoghi "ubi sepius ob diversitatem ac dissensionem officialium delicta remanent impunita", sia nella concessione della prevenzione tra Prefetto della Montagna e governatore della Marca Anconetana nella persecuzione dei malviventi nelle zone di Montegallo, Montemonaco e Montefortino, centri chiave del banditismo nell'Ascolano. Non è poi da trascurare la possibilità che l'istituzione della Prefettura sia stata concertata tra lo stesso Pio V e il suo commissario generale dei banditi, il patrizio nursino Candido Zitelli.
    Il territorio della Prefettura è inizialmente costituito dalle terre, contadi e distretti di Norcia, Cascia, Visso, Cerreto e Monteleone, e con questa giurisdizione viene amministrata consecutivamente da Sebastiano Rutiloni di Tolentino e da Giovanbattista Baiardo di Parma. Il 10 giugno 1572 il nuovo pontefice Gregorio XIII abolisce la Prefettura e nomina ai governi di Norcia, Cascia e Visso rispettivamente Francesco di San Giorgio da Casale, Bernardino Guascono e Scipione Bensio.
    E' difficile dare un'interpretazione convincente a quest'atto del pontefice: si potrebbe ricorrere alla tesi del Karttunen, che cioè, almeno nella prima parte del pontificato del Buoncompagni, altri problemi sormontino ed oscurino quello del banditismo, ancora non giunto alla sua fase più incontrollabile; possiamo allora credere che il malcontento generato dal nuovo assetto in ambiente Casciano e Vissano, terre queste che anche per il futuro mal sopporteranno la privazione del diritto ad avere un proprio governatore e la sottomissione al Prefetto risiedente a Norcia, abbia indotto il pontefice a sciogliere la Prefettura, scongiurando così la possibilità di reazioni violente e disgregatrici, in un momento di relativa calma sul fronte della criminalità.
    I tempi che si preparano non presentano però le stesse priorità di politica interna, e al moltiplicarsi in tutto lo Stato delle bande di malviventi e delle scorrerie, negli anni '80, si verificano anche nella Montagna numerosi fatti di sangue che impongono scelte più radicali.
    Nel 1580 si verifica l' ingresso di banditi in città con la rovina delle case dei Fusconi. Le decisioni prese in sede processuale dal commissario Ghini generano malcontenti, e gli strascichi giudiziari si protrarranno almeno fino al 1584. Nello stesso periodo un altro fatto di sangue provoca una grande impressione sul magistrato cittadino, anche con riguardo alle passate vicissitudini, tanto da richiedere l'invio di oratori a Roma. Era accaduto che il 21 agosto 1583, sotto il governo di Orazio Nelli, una banda armata aveva sorpreso ed ucciso alcuni cittadini, tra cui il console della città Alessandro Petrucci, durante la visita alle rocche di Mevale e Riofreddo. E' probabilmente da ricollegare a questi fatti, nonché alla missione degli oratori nursini, Tommaso Tebaldeschi, Stefano Berardelli e Sebastiano Zaccarelli, il profondo ripensamento del pontefice sulla politica da tenere nella Montagna. Tant'è che il Buoncompagni, tornando sui suoi passi, con breve del 5 ottobre 1583 restituisce la Prefettura della Montagna con gli stessi intenti e conferendole gli stessi privilegi già concessi dal suo predecessore, ma ampliandone il territorio, tanto da formare una vera piccola Provincia della Montagna a cavallo tra Umbria e Marca Anconetana. Il territorio comprendeva molti dei centri accomunati dalla piaga del banditismo, ed aveva una chiara uniformità territoriale e sociale.
    Viene allora nominato Prefetto Valerio Rengherio di Bologna, con giurisdizione su Norcia, Cascia, Visso, Cerreto, Monteleone, Montegallo, Montemonaco, Montefortino, Arquata e Labro e completa indipendenza dalle Province dell'Umbria e della Marca Anconetana.
    L'integrità territoriale della Prefettura ha però breve durata, intaccata dal sovrapporsi di altri progetti di riassetto territoriale, quale la costituzione del Presidato di Montalto, o più spesso dal prevalere delle spinte campanilistiche sulle ragioni dell'uniformità giurisdizionale. Durante il governo di Marco Tullio Ongarese (1584) Sisto V smembra Labro concedendo a questa terra il ricorso a Roma e, subito dopo, erige il presidato, unendovi Montegallo, Montemonaco e Montefortino, restituite così all'area d'influenza marchigiana. Nel 1588 è infine la volta di Cascia: già dal 1586 erano sorti dissapori col prefetto per la resistenza opposta dai casciani al pagamento del bargello, residente in Norcia, e dei soldati corsi, nonché alla perdita dei proventi delle pene dei malefizi; per tale causa vengono inviati due volte da Cascia oratori a Roma ai piedi di Sisto V che, il 26 ottobre 1588, separa Cascia dalla Prefettura, ridonandole un governatore di breve direttamente soggetto a Roma. Dal punto di vista giudiziario Sisto V non rinuncia però del tutto a mantenere un ruolo di supervisione sovraterritoriale al prefetto, cui riconosce il diritto, cumulativamente con Perugia, sopra le cause di seconda istanza riguardanti la Comunità di Cascia.
    Con tutto ciò, per tutti gli anni '90 del XVI secolo la Prefettura, pur mutilata nell'estensione territoriale e quindi nell'incisività di governo, mantiene una posizione centrale nella lotta al banditismo, specialmente come passaggio obbligato nelle scorrerie del Piccolomini e dello Sciarra dalla Marca alla Campagna. Troviamo ad esempio notizia che il 4 ottobre 1590 si dà la caccia al Piccolomini che, congiuntosi nella Marca con Battistello, si appresta a passare, attraverso la Montagna nursina e reatina, nella campagna. Avendo la banda subito una sconfitta dalle truppe ascolane si dà alla fuga, ma presto si unisce ai fuggiaschi una schiera di trecentocinquanta uomini proveniente da Norcia e capeggiata da Pierconte da Montecalvo, Sticozzo di Valle Castellana e Fabio da Montefortino. Ancora del 4 aprile 1592 è l'ordine del cardinal Montalto di processare la Comunità di Norcia per non aver opposto sufficiente resistenza ai banditi nell'ingresso e conseguenti saccheggi e distruzioni che questi fecero nel Castello di Poggio di Croce. Era andata anche peggio a marzo dello stesso anno a un'altra comunità del contado nursino che aveva tentato una difesa; si riporta dagli annali del Comune di Norcia: "havendo per hobedientia fatta resistenza [la comunità di Serravalle] alla compagnia di Pierangelo da Pitialta et Battistello da Monterubbiano che haveano compagnia di 250 banniti, ne fecero a uno uno morire 23 scannati tutti come agnelli".
    L'attenzione di Roma al governo della Montagna è soprattutto testimoniata dalla corrispondenza dei cardinali della Segreteria di Stato coi prefetti, ricchissima di direttive generali sul contegno da tenere nelle campagne come in città e sulle modalità di trasferimento dei banditi catturati, di allertamenti per il passaggio di bande, e ancora di numerosi ordini sul trattamento di casi singoli.
    Solo col nuovo secolo l'esaurirsi dell'emergenza banditismo relegherà gradualmente la Prefettura ai margini della politica pontificia; la scomodità del sito e la rigidezza degli inverni resero allora la sede poco ambita, specie quando il territorio montano andò perdendo vitalità economica, e, come tale, essa fu considerata da molti una breve e necessaria parentesi nella scalata delle gerarchie dell'amministrazione pontificia, se non a volte un luogo di esilio e punizione. Ricordiamo qui i casi del Ciampoli che, decaduto dalle grazie di Urbano VIII Barberini vi venne relegato a mo' di esilio, di Emerico Bolognini, che ha lasciato una velenosissima invettiva contro i Nursini esprimente il disagio e l'insofferenza per l'ambiente provinciale, di molti altri le cui suppliche di trasferimento si rinvengono nella rubrichetta della Segreteria di Stato dell'Archivio Segreto Vaticano.
  • Redazione e revisione:
    Comino Caterina, 01/01/2006, ordinamento e inventariazione